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LE PARAPLUIE DE MERCUTIO - L’ombrello di Mercuzio.

Meteo di un'autobiografia


Il tendine era teso al salto.
La gioventú vivace seduceva le mie ossa.
Scale scese come scende serpentino il fiume a valle.
Gradini 13 come 13 il numero di casa.
XIII L’ARCANO SENZA NOME - Quello con la falce che taglia e rigenera.
Lo scheletro é l’ultima traccia di polvere che lasceremo su questa terra.
Pulviscoli sottili.


L’atmosfera briosa d’un pomeriggio soleggiato suonava a colpi di straccio.
Mia madre batteva nella vasca di pietra il rude tessuto sporco.

Il pezzo di sapone odoroso d’acido schiumava tracce di passi.
Al decimo gradino, le mie ginocchia si piegarono sfidando l’altezza dei tre restanti.
Gli occhi misurarono la distanza e, quasi in un contempo non calcolato, la mia voce trovò l’uscita dall’umida caverna annunciando senza alcuna esitazione: Voglio fare teatro.

        Salto.
        Atterro.
        Risalgo adagio sulle rotule levatrici.
        La riuscita richede sempre un certo equilibrio.

Mia madre si giró, sulla fronte l’incomprensione di quella frase.
Io, labbra in giú, spalle in su, una chiara metamorfosi di chi non sapeva cosa avesse  appena detto.
L’incontro del nostro sguardo si spense in direzioni diverse:
gambe, compasso sbilenco che scappava verso la vigna
polsi, mezzelune ostinate a sfregar sulla pietra scheggiata.

La Renault 4 blu é stata la mia macchina preferita, la guidavo da quando avevo dodici anni per la stradina privata che costeggiava gli ulivi di mio nonno.
Il freno a mano di lato dava fascino al muscolo dell’avambraccio, la forza di poter fermare il veicolo era pari quasi alla convinzione di poter fermare il corso degli eventi.
Le ore in campagna erano scandite spesso dall’odore della luce e quel preciso momento aveva un profumo fresco di bruciato.
Vado in paese, mormorò la Reanaul4 con a bordo il sedere di mio padre.
Nell’andar lento della retromarcia lungo il viale, con precipitazione saltai a bordo  sbattendo forte lo sportello anarchico del liberi tutti; insomma la sicura piatta non funzionava e in una curva poco dolce potevi ritrovarti a contemplare a naso la striscia di sicurezza sull’asfalto.

Gli occhi curiosi di chi non andava molto spesso in paese catturavano i volti dei passanti disfatti dalla fretta o il loro saluto scattoso a quel calabrone color cobalto.
Di buona energia chiusi la portiera.
Di entrambi il sedere si diresse verso l’edicola.
Mio padre recuperò i giornali per mio nonno anche quelli la cui data era passata: Se non l’hai letta ancora la notizia é sempre d’attualità perché non la conosci, echeggiava fuoritempo l’anziana convizione di chi coglieva oppotunità di conoscenza.
Si schiuse, d’un tratto, la madida caverna, un suono seguì unicamente il respiro del mio sguardo e, quasi in un contempo non calcolato, l’indice comandó una trettoria:
Voglio quello, Scespir.
Una pronuncia stonata dall’accento determinato per chiamare a sè Sheakspeare.

        Duemila lire.

Mio padre si giró, sulla fronte l’incomprensione di quella frase.
Io, silenzio.
Lo scambio di carta avvenne sotto l’offuscata lampadina da 40 watt.
La sera sorgeva spesso in penombre inattese: quella sulla mia pelle era livida come la copertina del libro. Si riempivano i dorati decori con la polpa delle dita.

        Quanta pazienza traballa da un sedere

        poggiato su ammortizzatori poco moderni

        e su molle la cui presenza si scomoda

        proprio laddove v’è più morbidezza.

Gli occhi scivolarono per le strade di Verona, città d’archi e di mattoni.
Un tempo che narrava duelli e mantelli.
Il tonfo metallico non dubitò della chiusura dello sportello e i miei polpacci si contrassero risalendo la strada che strisciava di ulivi fino alla casa verde.
Il libro in una mano e i giornali nell’altra.

        Giungo.

La caverna fumosa alitava affanno secco, il tambur nel petto annunaciava la fine della marcia in salita.
Il mento lento sonnecchiava davanti al caminetto spento ma sempre fedele compagno di riposo.
Gridar non bastò a chi nel sonno trovava complice la sordità.
Stavolta sapevo cosa avrei detto: Nonno svegliati e ascolta!
Il sussulto di chi veniva da troppo lontano aprí il sorriso alle gengive tinte di  tabacco.
L’entusiasmo del mio corpo tirava le fila d’un credo.
Si confondevano intuizioni e oggetti.
Le mattonelle puntinate d’antico squadravano la scena.
Dopo qualche balzo e indicazione, come due grandi interpreti ci ritrovammo a duellare.
Il braccio amputato fece da leva ad un corpo troppo stanco per alzarsi ma tal curioso da  sguainare il bastone come fosse una spietata spada ed io, suggerendo parole, mi difesi con un ombrello da pastore.  
L’ovattato udito trasfigurava le frasi confondendo il senso del contesto veronese.
Di fatto rimaneva l’azione: attacco e contrattacco, una tensione sospesa nell’atto primo.
Mercuzio affondó il colpo con stecche di ferro e Tebaldo, cedendo il bastone al pavimento,  gridó forte come solo un sordo sa osare.

E sí principió il Teatro.

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